Storie antiche di Ornica

La leggenda della Val d’Inferno
Una delle zone più frequentate dagli amanti della montagna è la Val d’Inferno, quella lunga e ripida distesa di boschi e pascoli che da Ornica sale fin verso il Pizzo dei Tre Signori (foto). Un tempo la valle non aveva questo nome, ma si chiamava Val Fornasicchio, probabilmente per la presenza, nella sua parte più bassa, di forni (fornaci) e fucine per la lavorazione del minerale ferroso che si estraeva dalle miniere della zona. Il minerale, estratto a fatica dai minatori, veniva trasportato a Ornica a dorso di mulo e sottoposto a procedimento di fusione nei forni, per essere trasformato in verghe di metallo puro, pronte per la lavorazione nelle numerose fucine chiodarole del paese. Fu la presenza di tali impianti ad alimentare nella fantasia popolare l’accostamento dell’immagine del fuoco a quella dell’inferno, luogo del fuoco per eccellenza. A tale concezione è legata anche una leggenda, per la verità alquanto ingenua, che ancora oggi è raccontata a Ornica.

Il più grosso di questi forni era gestito in epoca assai remota, da persone forestiere, forse della Valsassina, specialiste del mestiere, che si dedicavano senza sosta a ridurre il minerale in ferro puro. Questi forestieri, narra la leggenda, non vedevano di buon occhio gli abitanti di Ornica, al punto che, ogni tanto, trovandosi a corto di legna o di carbone, non si facevano scrupolo di prendere qualche ornichese che passava da quelle parti e gettarlo vivo nella fornace per alimentare il fuoco. Una terribile paura assalì allora gli abitanti di Ornica che presero a chiamare quel luogo la Valle d’Inferno. Le prepotenze dei forestieri durarono a lungo finchè, un bel giorno, i capifamiglia di Ornica, risoluti a porre fine a quelle crudeltà, si riunirono in assemblea e decisero di inviare tre loro rappresentanti a Venezia per chiedere aiuto al governo lagunare. Il viaggio dei tre delegati fu proficuo, infatti dopo un paio di mesi essi se ne tornarono a Ornica portando con sè un carro carico di archibugi e bombarde. Felici per il buon esito della missione, gli Ornichesi costruirono un fortino in località Piazze, proprio dirimpetto al forno infernale, vi installarono le armi e presero a far fuoco contro l’impianto, distruggendo in breve ogni cosa. Così il forno maledetto sparì, ma il nome dato alla Valle d’Inferno è rimasto fino ad oggi.

La Baita del Diavolo 
In Val d’Inferno non poteva mancare la baita del Diavolo. Ecco quello che accadde tanto tempo fa a due pastorelli di Ornica, saliti come ogni giorno in Val d’Inferno per portare al pascolo il loro gregge. Mentre le pecore brucavano l’erba, i due ragazzi si misero a giocare e non si avvidero che le bestie si erano progressivamente allontanate dal luogo del pascolo per risalire la valle in cerca dell’erba più verde e dei fiori più profumati. Così, fattosi tardi, furono costretti a salire su verso la sfinge, l’imponente e caratteristica roccia dalle inquietanti sembianze umane che domina la valle, per recuperare le pecore. Percorsero un buon tratto di sentiero, poi finalmente scorsero in lontananza la macchia gialla del gregge e si sentirono sollevati per averlo ritrovato, evitando così di dover continuare le ricerche dopo il tramonto e magari di incorrere in una sonora sgridata dei genitori per non aver adeguatamente vigilato. Fermatisi un attimo per prendere fiato prima di radunare il gregge e iniziare la discesa, scorsero sull’altro versante della valle un sottile filo di fumo che saliva dal camino di una baita alquanto diroccata.

Meravigliandosi che la baita fosse abitata, decisero di andare a fare una visita agli inquilini, pensando che forse stavano preparando la polenta e, poiché erano affamati, ne avrebbero potuto chiedere una fetta, accompagnata da un po’ di formaggio per farne un chisöl da abbrustolire sulla brace. Si avvicinarono dunque alla baita, pregustando il prelibato sapore della polenta abbrustolita e del filante formaggio fuso. Prima di bussare, gettarono uno sguardo all’interno, attraverso una piccola finestra munita di una robusta inferriata. Quello che videro li riempì di spavento e tolse loro ogni appetito: un omino magro, dalla lunga barba bianca e completamente calvo stava accanto al camino in cui ardeva un fuoco vivo e scoppiettante. Appeso alla catena del camino un paiolo di rame, tutto sporco di caligine, ma non era polenta quella che bolliva nel recipiente, bensì una gran quantità di marenghi d’oro! Il vecchietto, con un ghigno satanico, stava accanto al paiolo e con un grosso e nodoso bastone rimestava le monete nel paiolo, come si fa con la polenta. Ogni tanto smetteva di mescolare, si avvicinava a un fascio di vergella, le bacchette di ferro pronte per essere ridotte in chiodi nelle fucine, ne tagliava dei piccoli pezzetti con un paio di grosse tenaglie e li aggiungeva al contenuto del paiolo. Che stesse trasformando il ferro in marenghi d’oro? Questa fu la domanda che si posero gli sbalorditi spettatori dell’infernale operazione, che sciolsero ogni dubbio sull’identità dello strano personaggio quando si accorsero che al posto dei piedi aveva due grossi zoccoli bovini. Era il Diavolo in persona! In preda al panico i due ragazzi si precipitarono a rotta di collo verso le baite del fondovalle ed avvisarono tutti quelli che incontrarono della loro allucinante scoperta. In fretta si organizzò un gruppo di coraggiosi che salirono fino alla baita del Diavolo per accertarsi del racconto dei ragazzi. Con ogni circospezione si avvicinarono all’edificio e guardarono attraverso la finestra. All’interno non c’era più nessuno, ma chiari indizi lasciavano intuire che i ragazzi avevano detto la verità e in precedenza lìdentro si era lavorato parecchio! E così quel luogo divenne per tutti la baita del Diavolo.

Tratto dal Libro di Tarcisio Bottani e Wanda Taufer: Racconti Popolari Brembani