La cerimonia ebbe luogo una domenica mattina, poche settimane prima dell’avvio della stagione dell’alpeggio, i contendenti, le rispettive famiglie e quasi tutta la popolazione si riunirono attorno alla baita del pascolo della discordia. Assieme a loro giunsero lassù i consoli e i consiglieri del paese, il vicario di valle, in qualità di giudice supremo e i rappresentanti del governo inviati dal podestà di Bergamo, accompagnati da un drappello di soldati col compito di sedare non improbabili tumulti. C’erano poi il parroco del paese e un canonico, mandato dal vescovo allo scopo di attestare la validità del sacro giuramento, infine un notaio, con il compito di redigere il relativo atto formale. Celebrata la messa, le autorità civili e religiose si disposero attorno all’altare e invitarono i contendenti a giurare davanti al crocefisso, dopo averli severamente ammoniti sui gravi castighi civili e religiosi riservati agli spergiuri. Nessuno dei mandriani del paese ebbe però il coraggio di pronunciare la solenne formula attestante il loro diritto di proprietà, infatti non avevano alcuna certezza di tale diritto, non disponendo di prove ufficiali e inconfutabili. Fu poi la volta del vecchio forestiero il quale, tra l’incredulità degli astanti, pronunciò a voce alta e sicura il seguente giuramento: “Giuro davanti a Dio che la terra che ho sotto i piedi appartiene a me e alla mia famiglia”. Le forze dell’ordine riuscirono a stento a trattenere la folla inferocita che tentava di avventarsi sul vecchio, accusandolo di spergiuro. Ma ormai la questione era chiusa: le autorità civili e religiose sancirono ufficialmente e concordemente che il pascolo conteso doveva essere assegnato definitivamente al vecchio mandriano, il cui giuramento non lasciava adito a dubbi. Così fu, e da quel momento il mandriano poté far pascolare le sue bestie su quel terreno, godendo della protezione della legge. Ma, se all’apparenza, ostentava sicurezza e spavalderia, la sua coscienza era agitata da un sordo rimorso. Infatti il suo giuramento era stata una vera e propria truffa e, se di fronte agli uomini tutto sembrava all’apparenza ineccepibile, dentro di sé egli era consapevole di essersi meritato il castigo di Dio. Castigo che non sarebbe tardato ad arrivare, considerata l’età dello spergiuro. Era infatti accaduto che il giorno del giuramento il mandriano, mal consigliato dalla moglie, era entrato nel suo orto, aveva preso due manciate di quella terra e l’aveva messa nelle sue scarpe, sotto i piedi… Forte di questa furbata, aveva quindi potuto giurare spavaldamente che la terra che … aveva sotto i piedi era sua! Autorità e avversari erano stati in tal modo ingannati, ma quando il furbo mandriano venne a morire e si presentò davanti al giudizio di Dio, ebbe il castigo che si meritava. E di che natura fosse il castigo lo appresero tutti coloro che negli anni seguenti ebbero la ventura di passare dalle parti dell’alpeggio durante un temporale. Allora potevano vedere l’anima dello spergiuro vagabondare per la montagna in groppa a un cavallo di fuoco che scalpitava sinistramente tra lampi e tuoni in un turbine di vento e grandine. A ogni passaggio il dannato mandriano urlava un ordine lugubre e disperato: Laghì sta i tèrmegn! La róba di óter la fa póca zuàda!. Manco a dirlo, più nessuna mandria poteva essere portata su quell’alpeggio perché le mucche, in preda a un’indicibile inquietudine, si rifiutavano di pascolare, emettevano muggiti lamentosi e non davano una goccia di latte. Nemmeno le ripetute benedizioni impartite da vari sacerdoti seppero tener lontana quell’anima dannata, che continuò per anni a seminare il panico tra i montanari. E anche oggi può capitare, in certe notti di tempesta, di sentire su per la montagna lamenti umani mescolati al brontolio dei tuoni mentre guizzi di luce, simili a lampi, corrono qua e là sopra la distesa dei pascoli.
Una messa sacrilega in Val Vedra
La Val Vedra è un’ampia conca verde che si estende a monte di Zorzone, in quel di Oltre il Colle, fino all'omonimo passo, in prossimità del lago Branchino. Nella parte più settentrionale è delimitata dalle cime calcaree del monte Vetro e della Corna Piana, habitat naturale di camosci e caprioli e regno delle stelle alpine. Oggi questa zona è una delle più interessanti dal punto di vista naturalistico dell’intera Valle Brembana: a due passi si snoda il “Sentiero dei Fiori”, che guida gli amanti della natura alla scoperta della flora spontanea orobica, sottoponendo alla loro attenzione numerose specie assai rare e alcune addirittura endemiche, cioè esclusive di questa zona. I monti circostanti e il lago Branchino sono la meta preferita degli escursionisti che desiderano trascorrere alcune ore all’aria aperta. I verdi pascoli della vallata risuonano, durante la stagione estiva, dei campanacci delle mandrie portate in alpeggio. Eppure a questa valle è legata una tradizione assai sinistra: si racconta, infatti, che nella verde distesa delle malghe esiste un’area sulla quale è impossibile far pascolare le mandrie o le greggi, un’area stregata, che tiene lontani gli animali, come se fossero respinti da una forza oscura e misteriosa. La ragione c’è, almeno nella leggenda, e deriva da un atto sacrilego commesso tanti anni fa da un mandriano. Che la vita degli alpeggiatori sia piuttosto difficile e non abbia molto da spartire con il risvolto bucolico che qualche profano di città ha voluto ricamarci attorno è un dato di fatto, almeno per chi ha frequentato da vicino l’ambiente. Giornate monotone, costellate dalle immutabili occupazioni quotidiane: la mattina sveglia all’alba e subito al lavoro, la sera non è mai ora di tornare a baita. Poco male quando splende il sole, la natura è allegra, le bestie sono tranquille, ma si sa che l’estate sui monti è avara di bel tempo. E lassù quando piove è davvero un guaio: i temporali fanno paura, lampi e tuoni sono vicinissimi e continuano minacciosi per ore, il vento sembra squarciare il tetto della baita e non di rado cade la grandine. Eppure bisogna andare: riparati da grossi tabarri e da pesanti e variopinti ombrelli, si corre a radunare la mandria spaventata, sistemare i recinti, abbeverare, mungere, curare i capi ammalati, e poi, portare il latte nella casera, preparare il formaggio, riparare gli attrezzi… Sempre lo stesso lavoro, giorno dopo giorno, da giugno a settembre. Ai nostri giorni qualcosa è cambiato: qualche diversivo è offerto dall’arrivo abituale degli escursionisti che si fermano volentieri fuori della baita a scambiare quattro chiacchiere con i malgari, oppure si può anche imbastire una certa turnazione che consente di scendere ogni tanto a valle, approfittando anche dei tracciati carrozzabili che ormai raggiungono buona parte degli alpeggi. Ma un tempo non c’erano nemmeno queste piccole alternative: la stagione estiva era una specie di esilio montano per i mandriani e le loro famiglie. C’era però un dovere sacrosanto per tutti gli adulti: quello di scendere ogni domenica nel paese più vicino per assistere alla messa che per forza di cose non poteva che essere quella delle ore antelucane… E guai a trasgredire il precetto! Era un impegno non indifferente, che costringeva a levatacce proibitive per scendere a valle e risalire dopo qualche ora, in tempo per avviare la consueta giornata d’alpeggio. Fu così che un certo giorno un mandriano che non ne poteva più di queste continue discese e risalite domenicali ebbe l’originale pensata di sostituirsi al parroco e di celebrare lui stesso la messa, convincendo i suoi colleghi a parteciparvi.
Costruito con dei sassi un altare, presa una tazza piena di latte, indossate come paramenti alcune coperte stracce, diede inizio alla funzione. Assistito da due compari chefungevano da chierichetti, attorniato dagli altri alpeggiatori, il mandriano promotore dell’iniziativa iniziò a scimmiottare i riti propri della messa, storpiando le preghiere in latino, imitando alla meglio i canti liturgici e rivolgendo ai presenti perfino due parole di omelia. Ma proprio mentre il sacrilego si accingeva a pronunciare la sacra formula della consacrazione, ecco che l’aria fu squarciata da un tuono spaventoso, accompagnato da una bufera impetuosa che oscurò il sole annebbiò tutta la vallata. Poi sotto i piedi di quel gruppo di disgraziati si spalancò una profonda voragine che inghiottì l’altare e tutti i presenti, tra urla spaventose. Le fiamme dell’Inferno lambirono per un attimo la voragine, che in breve si richiuse lasciando la vallata deserta e animata solo dai muggiti lamentosi delle mucche nei loro recinti. Ancora oggi c’è qualche mandriano o cacciatore che di tanto in tanto, passando da quelle parti, asserisce di avvertire l’eco di voci supplicanti, al punto che, memore della leggenda, corre ad avvertire qualche prete perché salga a benedire la vallata. Ma c’è dell’altro. Poco lontano da quella valle, si trova la conca del Pradello, tra i monti Arera e Grem. Questa zona è teatro di un altro fenomeno difficilmente spiegabile. Si narra che a qualche mandriano capita ogni tanto di assistere a una strana processione. Accompagnato da un sommesso salmodiare, si svolge un lungo e solenne corteo di disciplini che, vestiti della loro tunica bianca e della mantellina rossa, con in mano un grosso cero, fanno lunghi giri tra rocce e dirupi, arrivando fin presso le baite e passando tra le mucche e le persone, incuranti di tutto, finché raggiunta una caverna che si apre sul fianco della montagna, vi penetrano uno dopo l'altro, scomparendo nel nulla. Chi siano questi personaggi d’oltretomba nessuno lo sa con precisione, però c’è chi suppone che il fenomeno sia legato alla presenza in quella zona, fin dai tempi antichi, di profonde miniere che hanno costituito per secoli la principale fonte di sostentamento per la gente della zona, ma hanno determinato anche tanti lutti per la morte tragica di centinaia di minatori. Forse si tratta delle anime di questi minatori, morti sul lavoro e senza il conforto dei sacramenti, che ritornano nottetempo sulla terra a chiedere una preghiera che li aiuti a uscire dal Purgatorio. O forse sono i mandriani sacrileghi della Val Vedra condannati ad espiare con questa solenne cerimonia il castigo per il loro gesto inconsulto.
Il carbonaio senza cuore
Si narra che in certe giornate di pioggia, nei fitti boschi che ricoprono le pendici del Monte Alben, può capitare di sentire il pianto inconsolabile di un bambino, accompagnato dalla lamentosa ninna nanna della sua mamma, che cerca invano di farlo addormentare. Secondo qualcuno, il fenomeno ha una precisa spiegazione e si riferisce a un tragico episodio di parecchi anni fa, al tempo in cui non pochi abitanti di Serina e dei paesi limitrofi campavano facendo il boscaiolo o il carbonaio. Uno di questi viveva con la moglie e il figlioletto in una baita posta nel sito detto Caàgna róta. Era un individuo irascibile e violento, un attaccabrighe sempre pronto a passare a vie di fatto con chiunque e specie con la moglie, e per niente tenero nemmeno col bambino.
Madre e figlio erano tranquilli solo quando il taglialegna era fuori, alle prese con robusti alberi da abbattere e da ridurre in ceppi minuti, atti ad alimentare il grosso poiàt che fumava senza sosta al centro della piatta aiàl situata nei pressi della baita. Dovendo tenere costantemente d’occhio il poiàt, per alimentarlo con nuovi ceppi o regolare l’intensità della combustione, aprendo o chiudendo ad arte i fori del tiraggio praticati nello spesso strato di fango secco che rivestiva la catasta, il carbonaio non poteva starsene a lungo nella baita, neppure di notte, ma vi entrava solo per mangiare, rimproverando aspramente la moglie se il cibo non era pronto o non era di suo gradimento. Nemmeno i momenti per il riposo erano frequenti, così, tra alberi abbattuti e ceppi da spaccare e ridurre in carbone, il poveruomo era sempre stanco e scontento. Guai a disturbarlo quando si appisolava, appoggiando la testa sulla tavola, subito dopo aver mangiato una fetta di polenta e stracchino e tracannato un paio di bicchieri di vino! Capitò che una sera, tornato a baita al termine di una giornata piovosa che l’aveva fatto dannare, tra lampi e tuoni, senza consentirgli di concludere un gran che, invece della solita cena pronta in tavola, trovò la moglie intenta a cullare il bambino che si lamentava e piangeva in preda a forti dolori di pancia.
È a questo punto che la storia assume toni grotteschi e truculenti, mostrandoci la folle natura di un uomo che, per la verità, non trova rispondenza in generazioni di operosi montanari brembani. Per farla breve, si racconta che il boscaiolo, stanco e affamato e irritato perché la moglie non gli prestava attenzione e il figlioletto lo infastidiva con il suo pianto incessante, fu assalito da una collera incontrollabile: non più padrone di sé, abbrancò il bambino, uscì fuori dalla baita urlando, corse fino all’aiàl e lo infilò nella bocca del poiàt, facendolo bruciare tra orribili tormenti… Quindi prese la moglie che gli si era avventata contro urlante, nel vano tentativo di impedirgli questo gesto efferato, e scaraventò anche lei nel poiàt. Consumato l’orrendo duplice delitto e resosi conto della gravità del suo gesto, si diede a correre nel bosco, urlando e invocando il nome della moglie e del figlio. Lo trovarono alcuni giorni dopo le guardie inviate alla sua ricerca, morto sfracellato in fondo a un dirupo. Ecco quindi che anche la montagna, come commossa dall’atroce scena a cui aveva assistito impotente, sembra aver serbato il ricordo del dolore di una mamma e del suo bambino, facendo riecheggiare nei secoli le loro voci disperate.
Tratto dal Libro di Tarcisio Bottani e Wanda Taufer: Racconti Popolari Brembani